Intervista a Domenico Settevendemie
Augurare buon viaggio alla propria creatura
Intervista a Domenico Settevendemie
a cura di Camilla Ugolini Mecca
© Riccardo Bottazzi/Domenico Settevendemie
Era la
prima volta che mi imbattevo in un testo poetico in grado di parlare
dell’ultimo saluto di un artista alla propria opera. Nel suo libro prezioso "Ho
fiducia in te", edito da Manfredi edizioni - testo in prosa e poesia e
comprensivo di un apparato fotografico realizzato a quattro mani con Riccardo Bottazzi - Domenico Settevendemie indaga il tema del commiato dello
scultore dalla propria opera, a partire dall’esplorazione concettuale di un
luogo specifico del nostro territorio.
Non
aggiungo altro. Lascio che le risposte dell’autore raccontino del suo progetto.
Innanzitutto
grazie per le tue domande. Davvero le considero un dono, un tendere la mano e
mettersi all'ascolto dell'altro, che, dal tono, comprendo sia per un'urgenza
personale priva di alcun ideologismo. Ed in effetti già qui risiede la risposta
alla prima questione che poni. La porzione di territorio indagata nel libro,
per sua conformazione fisica e vocazione metafisica, si pone alla nostra
attenzione come una piattaforma di partenza per esplorazioni che attengono
essenzialmente allo sguardo e più precisamente allo sguardo attraverso la
superficie delle cose. Per un'esigenza di insopprimibile curiosità verso ambiti
più remoti e meno evidenti di quella pianura padana che tanto interesse ha
destato in artisti ben più illustri di noi. Ne cito alcuni: Ghirri, Antonioni,
De Chirico.
Le cose della vita che ci appassionano, infatti, non ci mollano un
attimo, ci si attaccano addosso come una seconda pelle. Vale per ognuno di noi,
a maggior ragione per l'artista, che ne fa la vera ragion d'essere. Più nel
merito, quanto della Natura sembra razionalmente una barriera invalicabile, lo
è per un corpo non ancora evolutosi fisicamente per interagire con quella parte
di materia non visibile, intangibile, della stessa grana dello spazio infinito,
di cui pure quel corpo è composto. Non così per lo sguardo: un'azione meccanica
dell'occhio, anch'essa fisica che però, nelle nostre intenzioni, non può
prescindere da un movimento pieno e partecipato del pensiero fino alla sua
elaborazione più astratta – qui da intendersi nella versione kojeviana di astrazione
come estrazione. Ovvero l'atto di cogliere un'immagine che si trascina dietro
la scia di una risoluzione futura e inaspettata. Sta a noi cercare di farla
emergere almeno in parte, spingendola continuamente in avanti. Il territorio
preso in esame – lasciatosi alle spalle la stratiforme ancora intatta Ferrara
medioevale e rinascimentale e la Tresigallo razionalista – perennemente sospeso
tra terra e cielo, con la sua piattezza solo apparente, i suoi bianchi
rettilinei che conducono tutti al mare, il grande fiume (o quel che ahimè ne
resta) a segnarne a nord-est un confine immaginario, ci è parso il luogo
archetipico dove fomentare fantasie visionarie, dove farvi correre la mente,
per un diverso modo di scandagliare lo spazio attraversandolo senza timore di
incontrare ostacoli di sorta e disegnando così traiettorie altrimenti precluse.
Opera di ©Riccardo Bottazzi
Immagine di © Riccardo Bottazzi/Domenico Settevendemie
Mi sembra che il ponte fra il paesaggio e l’opera d’arte – la scultura di Riccardo Bottazzi - risieda in un altro elemento del territorio: un particolare silo, che tu definisci come una “versione contemporanea e molto rivisitata di un menhir”. Una presenza immota, “che guarda verso il mare, mentre niente e nessuno pare turbarlo”. Ci vedo un personaggio dei libri di Cormac McCarthy, uno di quei messicani che aspettano e guardano il paesaggio in silenzio, ma che avrebbero molte storie da raccontare. Senza quel silo, senza quel testimone il paesaggio cambierebbe drasticamente. Cosa puoi dirmi del tuo, del vostro rapporto con questa presenza?
Mi piace il tuo riferimento a McCarthy. Il nostro è decisamente “Il
Deserto dei Tartari” di Buzzati nella trasposizione cinematografica di
Zurlini. Più precisamente, il cannocchiale fuori ordinanza del tenente Simeoni,
con il pari grado Drogo, i soli rimasti nella fortezza Bastiani in attesa
dell'avvistamento di un nemico di cui non è nemmeno più certa l'esistenza.
Tralasciando completamente l'intendimento letterario e filmico dei rispettivi
autori, ciò che più ci ha interessato è stato l'atteggiamento di totale
devozione dei due ufficiali verso un compito, da noi inteso come fideistica
adesione al proprio destino. Alla troppa distrazione che condiziona le nostre
vite, e in conseguenza a un grado di attenzione che consuma tutto velocemente,
posandosi su quanto ci circonda con la medesima apatica indifferenza,
proponiamo invece un'indagine fatta di pochi, selezionati elementi, però
decisivi per definire un'identità. Il binocolo rappresenta il prototipo di
oggetto sensoriale capace di incarnare un avanzamento concettuale che non si
arresta nel manufatto in sé, ma prosegue oltre la sua struttura fisica, come si
trattasse di un'estensione del corpo, esercizio rabdomantico della conoscenza
protratta in un tempo indefinito. Si ricordi che l'etimologia della parola
'oggetto' deriva dal termine latino ob iacere che significa proprio 'gettare, lanciare in avanti'.
Ai fini della nostra ricerca, il binocolo assume i connotati di un vecchio silo di granaglie - come ce sono ancora diversi, ormai tutti in disuso, nella pianura ferrarese - dalle curiose sembianze di una grande testa, intenta ad annusare l'aria e mirare la linea dell'orizzonte per scovare, attraversandole, spazialità rinnovate nel senso e nella dimensione. Manufatto antropomorfo, diventa un osservatorio grazie al quale ogni lontananza visibile si rimodula nella distanza, ogni altra visione è una realtà possibile, ogni forma rivelata è una nuova porta d'ingresso sul mondo. Quel che conta è un'istanza artistica che alimenti l'atto del creare tipico della Natura. La materia è di per sé strutturale attitudine al mutamento, continuo processo di formazione, innesco per il cambiamento. Diversamente dalla Land art, non interveniamo fisicamente sulla Natura, ma tentiamo di compenetrarla con uno sguardo che non si limiti a farne la cronaca della sua parte manifesta, ma interagisca più in profondità con essa e per suo tramite, che poi vuol dire togliersi di dosso quanti più filtri, soprattutto sociali, offuscano la nostra capacità di osservazione. Tra chi ci segue, qualcuno ha definito quest'operazione concettuale come metafisica sapienziale. Nonostante in genere non ami le classificazioni, devo dire che l'espressione è piuttosto calzante.
Nel tuo
poema, come anticipato, descrivi il rapporto tra lo scultore e la sua opera e
il commiato fra i due. La “nostalgia di noi” – di quel ‘noi’ che nasce
dall’intesa fra scultore e scultura – riguarda anche te e le tue poesie? Senti
nostalgia quando le lasci andare?
La misura della mia nostalgia è inversamente proporzionale alla
distanza che la poesia, o la parola letteraria variamente intesa, percorrerà
per proprio conto. Quanto più procederà in avanti, tanto più ho la speranza che
un giorno tornerà a farmi visita, come un buon figlio fa con il proprio
genitore. Allora sarà una gioia ricevere il resoconto di quel nuovo tratto di
vita percorsa cui ho avuto l'unico merito di dare l'avvio, e che i miei soli
occhi non potrebbero altrimenti vedere.
© Riccardo Bottazzi/ Domenico Settevendemie
Il
titolo del tuo libro “Ho fiducia in te” è anche una frase che l’artista
pronuncia alla propria opera, prima di accomiatarsene “esattamente come un
padre fa con il figlio che lascia per sempre la famiglia”. Mi piace molto
l’idea che l’artista senta fiducia nel proprio lavoro. Cosa significa per te
avere “una fede indistruttibile” nella propria opera?
Per me significa considerare l'opera d'arte come uno strumento
anticipatore di quel che un individuo è ancora solo in potenza, molto prima di
averne piena consapevolezza. Credo quindi nella funzione predittiva dell'arte,
nella sua capacità di superare la rappresentazione piana a favore di una
proiezione su più livelli. Quando l'arte non si riferisce più e soltanto a un
mondo dato, partecipa finalmente alla creazione di quel mondo, connettendosi
proficuamente con quanto la circonda.
Oltre a
Riccardo Bottazzi, hai collaborato con altri artisti. Un esempio è il tuo
scritto per "Alberi - La foresta che è in noi", la mostra di Marisa Zattini. Ma ve ne sono stati altri di cui mi
piacerebbe raccontassi. Vuoi parlarci di come sono nate queste
collaborazioni? Che rapporti si intrecciano tra le opere degli artisti e
la tua scrittura? Mi sembra che i tuoi scritti sull'arte non siano forme di
critica, quanto percorsi paralleli, o accompagnamenti al lavoro degli
artisti...
Sensazione
assolutamente corretta, la tua. Scrivere di altri artisti, per me non è farne
una tipizzazione curatoriale e di critica estetica – altro mestiere, per niente
facile, in alcuni casi essenziale ai fini di una loro corretta comprensione e
attribuzione di valore – bensì è instaurare uno scambio diretto con quanto le
loro opere mi suscitano, un flusso di libere associazioni della mente in cui
arte produce, almeno nelle intenzioni, altra arte. Gli esempi altissimi di
Philippe Sollers in alcune sue monografie e di Jean Genet ne "L'atelier di
Giacometti", li considero un riferimento non solo culturale ma anche
antropologico di come la scrittura, da rigoroso corredo testuale, possa
trasformarsi in un più audace esercizio traduttivo di quei volumi e quelle
superfici prese in esame, magari amplificandone i significati propri o
introducendone di nuovi (faccio mio il principio secondo cui tradurre è un po'
inventare). La stessa costruzione del testo per moduli, ovvero periodi autonomi
però interconnessi gli uni con gli altri, garantisce un maggior raggio
d'azione, consentendomi ogni volta di proporre una variazione al tema
originario, che comunque deve rimanere il complesso dell'opera visiva o
plastica dell'artista di riferimento. Questo mio modo di procedere, è in fondo
il riconoscimento che l'opera d'arte, se ha forza e valore in sé, si trasforma
e diviene ciò che è indipendentemente da chi ne fruisce e persino da chi ne è
l'autore. Una capacità autogeneratrice di senso che io posso tutt'al più assecondare con qualche ardita trama
letteraria, una volta accettata questa sua innata natura multipla e insieme
singolarissima. Se messa a terra filosoficamente, e concludo, è la
riproposizione dei concetti di 'coscienza decentrata' e 'spazi di coesistenza'
presenti in Sloterdijk, che su questi temi ha fondato il suo pensiero
innovativo, laddove rifiuta in arte inutili dualismi, schematismi,
contrapposizioni, a favore invece delle innumerevoli interazioni e
contaminazioni che da essa spontaneamente scaturiscono.
Domenico Settevendemie è poeta e scrittore. Tra le sue pubblicazioni: per Manni Editore i libri di poesie “Grazie” e “Metti le mani”, entrambi con avallo critico di Edoardo Sanguineti; ”Variazioni sull’angolo diedro”, libretto di scena per i tipi SBC; “Il pubblico della domenica”, testo teatrale edito La Carmelina; la raccolta di racconti “WANTED e altre ricercatezze” per la Effigie Edizioni di Milano. Redige supporti letterari per altri artisti. Fa pubbliche letture dei suoi lavori.
Con Riccardo Bottazzi condivide da anni
un’indagine artistica sul paesaggio di pianura con una serie di scritti a esso
specificamente dedicati. Sul tema, nel numero
61 della rivista internazionale d'arte “Graphie”, teorizza il “Prospektor” -
opera in cemento alveolare dello scultore ferrarese - e le sue possibili
applicazioni in ambito installativo. Tra queste, si menzionano il 'Progetto di
Camera metafisica numero zero' presso “Il Vicolo” - Galleria Arte Contemporanea
di Cesena e un'installazione di
video-scultura presso la Kreis Galerie Germanischen Nationalmuseum di
Norimberga dal titolo 'Through. Prospektor taken shots' il cui testo poetico è stato musicato dal
compositore Fausto Razzi in occasione di un concerto tenutosi all'Istituto di
cultura italiana di Berlino.
domenicosettevendemie@gmail.com
