Segnali stradali n. 1 - Vivisezioni ovvero la voce dell'invisibile
Era appeso al campanello. Quasi invisibile, minuscolo. Caratteri per formiche. Un biglietto preciso, ordinato, scritto al computer. Protetto perfino dal cellophane, in caso di pioggia.
“Non smetterò di cercarti…”,
così iniziava.
Umiltà e tenacia, da questa
parte della strada. Dalla parte esposta. Esposta al plauso per quell’ostinato
cercatore (o cercatrice), che certo mostrando la propria passione si rivolgeva
anche al mondo, indistintamente. A tutti noi che, in fondo, ci identifichiamo
con l’innamorato respinto. Salvo quando il rifiuto si fa violenza, per i primi
cinque minuti, o per le prime ore, ci muove tenerezza. Lo compatiamo perché potremmo
trovarci lì, dalla stessa parte.
Ma poi chi c’è, dall’altra
parte, che non si fa trovare? Chi osa respingere un desiderio che sembra tenere,
nonostante i rifiuti? Conosciamo forse la voce dell’invisibile?
Ci piace il fuoco d’artificio,
il gesto drammatico e un po’ impavido. A portata di tutti. Il segreto delicato
che d’un tratto si fa oggetto del mondo e così trasformandosi un po’ si sciupa.
Comunque, nonostante il cellophane.
Quel desiderio forte, trascritto,
ha da misurarsi necessariamente con le ragioni dell’altro, di chi è nascosto, di
chi sta dietro la porta e non apre.
Respingere, negarsi è forse un
atto di disamore?
Il silenzio ferisce, scava
domande e vuoti, ma non parla di mancanza d’amore, così come un biglietto
appeso, alla mercé dei passanti, non parla necessariamente d’amore.
Il silenzio può essere
protezione. Perché una storia fra due persone si merita il silenzio. Troppe
parole lo disturbano, ad un certo punto. Quando tutto si è detto, quando si è
discusso e spiegato, quando si è scelta la distanza, non resta che il silenzio. E' obbligatorio.
Quella coltre gentile che
protegge passato e futuro dall’irruenza del disfacimento. Uno spazio che non è
affatto vuoto, dove far riposare le parole dell’altro, dove poterle ascoltare e
riascoltare ancora, senza più il cicaleccio della ragione e del torto.
E allora chi sta dietro la
porta, chi si rende introvabile, forse non lo fa per disprezzo o rifiuto, ma
solo per saggezza. Il suo è un
atteggiamento più discreto di un biglietto esposto, meno vistoso ma che preserva
il fine: ossia che l’amore si conservi.
Ti tengo lontano, mi celo. Solo così
ti vedo. Eri troppo vicino prima, perché potessi capirti. Perché potessi
capirmi. La distanza che mantengo non spaventa neanche me e non è un’offesa. Forse è una difesa, ma di certo è ciò che mi permette di vedermi, di vedere te e noi. E
il tuo biglietto non fa che rompere il silenzio, infrange la distanza come una spada
che si infila in una ferita ancora aperta, e la fa sanguinare.
Ecco, forse, la voce di chi si nasconde.
È lì come una bestia, nel folto umido del sottobosco, che si lecca lo squarcio,
che prova a curarlo con la sua saliva, la sola cosa che ha. Un unguento semplice,
autoprodotto. Lo stesso che scorreva nei baci di un tempo, lo stesso che lubrifica
i discorsi, ora serve a lenire.
Ecco il biglietto che
scriverebbe a sua volta: “La saliva mi serve”.
Nessuno capirebbe, qualcuno ne
avrebbe pure schifo.
Ma questa potrebbe essere la
voce dell’invisibile. La voce di chi è rimasto a secco.
Ha a che fare coi liquidi, quell’essere
dietro la porta. Non teme la pioggia.
Avrebbe saputo riconoscere le
intenzioni dietro al biglietto appeso anche se lo avesse trovato a terra,
ridotto in poltiglia. Tu che hai protetto quel biglietto ordinato, come fosse un
reperto della scena di un crimine, nella vertigine della tua ossessione non hai
compreso. Che c’è più carne e sangue nella bestia che si nega, che nelle tue
lettere perfette, impettite, anatomiche. E che quel mondo asettico che ti
attraversa è forse ciò che la bestia rifugge.
Nella sua fuga disperata ti
costringe a uscire allo scoperto, ti invita al cambio di strategia. Ti sfida a
spogliare il tuo messaggio e ad affidarlo al tempo e alla sorte.
Perché è l’amore stesso (non tu)
a sfidare le distanze. Nonostante te, l’altro, tutti noi.
