La lettera - Un racconto

 


La pagina si era assestata ben bene fra Matteo e la macchina da scrivere, una Smith Corona degli anni Sessanta appartenuta al padre, tanti anni prima. In suo onore Matteo non aveva mai abbandonato quel mezzo obsoleto per uno più moderno, con cui sarebbe bastato premere un tasto per correggere eventuali errori di ortografia. Ma in quel momento non c’era pericolo di dover ricorrere alla vecchia, scomodissima scolorina, perché il foglio si stava intestardendo a restare candido, come se avesse una propria volontà a non farsi imbrattare da alcuna ombra.

Matteo si era fissato a guardare quella pagina ostinata, augurandosi che dalla stasi prendesse forma qualcosa. Sentiva sua moglie, nella stanza attigua, mormorare al loro piccolo mentre lo allattava, e avrebbe voluto essere lei. Doveva essere così facile essere madre, per certi versi. Dover soltanto assecondare la propria natura, i propri istinti di mammifero femmina con prole.

Matteo si percepiva come un tipico membro del proprio genere e sentiva di non conoscere un linguaggio adatto a comunicare con un neonato. Così si era intestardito a cimentarsi con la costruzione di una lettera, che sperava suo figlio avrebbe letto, prima o poi. Una lettera. Interessante che la stessa parola designasse le componenti dell’alfabeto, singoli segni elementari e solitari, e contemporaneamente un insieme di tali segni, destinato a poter comunicare.

Matteo voleva riuscirci, voleva trasmettere i propri sentimenti. Ma si sentiva impotente, inerme e anche un po’ stupido.

Si volse a guardare fuori dalla finestra, lo scorcio di giardino del dirimpettaio, il cancello, la strada acciottolata. Poi immaginò di fare come sua moglie e prese a osservare quel maledetto foglio non come fosse stato un avversario vestito di bianco, ma come il suo piccolo figlio di pochi giorni, come se lo stesse nutrendo e dovesse semplicemente rimanere lì con lui, aspettare che finisse di mangiare, che facesse il suo ruttino e forse si addormentasse.

Foglio, figlio. Una sola lettera a differenziarli.

Matteo restò lì con sé stesso e con quel silenzioso pezzo di carta. E si accorse di com’era difficile fare tutto questo, essere semplicemente presenti. Soprattutto per uno come lui, abituato a muoversi sempre senza ascoltare, senza concedersi pause per sentire.  Per un foglio non era arduo essere sé stesso e non chiedeva di diventare qualcosa di diverso. Proprio come suo figlio. Che esisteva, si limitava a esistere.

E d’improvviso, come dagli abissi profondi, giunse un pensiero a illuminarlo. Sua moglie aveva avuto mesi e mesi per realizzare che una nuova esistenza si stava preparando ad apparire. L’aveva sentita giorno per giorno prendere forma e spazio. Ma per Matteo, tra l’istante del concepimento e la nascita vi era stato un tempo vuoto, un rettangolo bianco come la pagina che gli stava davanti. Per lui quel piccolo nato era stato a lungo soltanto un’idea e poi pluf!, di colpo era arrivato dal nulla, era emerso da brodi primordiali che lui non aveva potuto percepire.

Più si sforzava di trovare dentro di sé parole che fossero all’altezza di un tale miracolo, più si accorgeva di non averne. E così sarebbe stato finché non avesse compreso con tutto sé stesso che quel miracolo e suo figlio non erano altro che la stessa realtà.

In lui in definitiva non c’era impotenza, ma soltanto lo stupore di un padre.


Questo racconto è stato inserito nell'antologia "La pagina bianca/Il bianco", edita da Giulio Perrone Editore nel 2011 

Post popolari in questo blog

La fucina del meraviglioso - Intervista a Maurizio Gioco

La parabola della materia - Intervista a Andrea Giovannetti

Ritornare a casa - Intervista a Giovanni Balderi