Intervista ad Adriana Moretto - Fotografare la luce del mondo
Qui ci racconta la visione della vita che emerge dalle sue fotografie.
Partiamo dal viaggio e in particolare dalla tua passione per l'India: una passione tale da farti avvicinare allo studio del sanscrito. Una delle tue serie fotografiche - intitolata “Humanitas” - è stata realizzata nell’orfanatrofio di Solur, dove hai prestato servizio. Vuoi parlarmi di questa esperienza?
Ciò che mi accade in viaggio è la sospensione di ogni
giudizio precostituito. Penso che solo così, in particolare, ci si possa
avvicinare all’India. Il mio primo impatto con l’India è stato a dir poco
traumatico: troppe sollecitazioni sensoriali, troppa gente, insomma troppo di
tutto! Ma è proprio quel ‘troppo’ a rendere l’India così unica. Ti entra dentro
poco alla volta, ma si installa in profondità, fino a diventare nostalgia.
Quando gli Indiani parlano della loro terra come “madre India” colgono nel segno:
l’India è veramente una grande madre che ci fa sentire a casa, coccolati,
accettati, amati. Non saprei come altro descrivere la sensazione che provo ogni
volta che metto piede laggiù.
Una quindicina di anni fa, ho avuto la possibilità di vivere in India per alcuni mesi continuativamente, e in quell’occasione ho potuto fare esperienze interessanti: ho conosciuto Sai Baba e Amma nei loro ashram, ho praticato meditazione e yoga, ho dormito nel monastero buddhista di Sera Je, ho partecipato ad alcune festività importanti celebrate in tutta l’India - come Divali, la festa delle luci; Holi, la festa dei colori - che simboleggiano la vittoria della conoscenza sulle tenebre dell’ignoranza; e Mahashivaratri, la celebrazione dell’unione del dio Shiva con la consorte Parvati.
Ma soprattutto ho fatto volontariato presso l’orfanatrofio di Solur, in Karnataka. Solur è il luogo dove è stata edificata una missione cattolica gestita da suore, missione che comprende un piccolo ospedale - il cui fulcro è la sala parto - una scuola per ragazzine che imparano faccende domestiche e ricamo, e infine un orfanotrofio. Solur si trova in una zona rurale difficilmente accessibile. La missione allora - assieme alla chiesa, alla moschea e al tempio indù - erano le uniche costruzioni di mattoni, mentre le altre case erano costruite con paglia e fango.
I bambini dell’orfanatrofio erano piccolissimi, in media
arrivavano fino ad un anno d’età - ad eccezione di 4-5 ragazzini troppo grandi
per poter essere ancora adottabili. Le partorienti arrivavano e, dopo il parto,
lasciavano i piccoli alle cure delle suore.
Il lavoro era tanto. Ricordo distese di panni stesi ad asciugare (niente pannolini preconfezionati), biberon e bagnetti. Pochissimi giochi. I bambini già in culla erano avidi di carezze e attenzioni. Ricordo ancora i miei pianti sommessi, durante la notte, e la dedizione infaticabile delle suore. E ricordo soprattutto l’ultima volta che ho salutato tutti loro, sapendo che non li avrei più rivisti. Un pezzettino del mio cuore è ancora laggiù…
Sempre in India hai realizzato una serie di fotografie
che hai intitolato “Indian Dreams”, ovvero “Sogni indiani”. Conosco questo
Paese solo attraverso Pasolini e il suo “L’odore dell’India”: un testo in cui
si ha spesso l’impressione che l’India sia un luogo dove tutto si mischia e si
condensa, dove tutto è possibile, proprio come nei sogni. Che rapporto c’è, a
tuo avviso, fra l’India e il sogno?
Adoro quel libro di Pasolini. Malgrado siano passati
tanti anni dalla sua pubblicazione, l’India - quella rurale - è ancora così,
come l’ha tratteggiata Pasolini. “L’odore dell’India” andrebbe letto in
parallelo con “Un’idea dell’India” di Alberto Moravia. Pasolini e Moravia
andarono insieme in India, ma le loro narrazioni furono molto diverse. Pasolini
ci mise pancia e cuore, Moravia invece mente e giudizio. L’India è una cosa e l’altra,
e proprio per questo è il luogo delle infinite possibilità - come dici tu: quel
luogo in cui tutto può succedere. Profumi inebrianti e odori nauseanti,
ricchezza e povertà vi si intersecano continuamente.
Non avevo mai riflettuto sull’accostamento tra l’India e
il sogno, ma è proprio così. Come il sogno, l’India presenta la totale assenza
di limiti spazio-temporali. Là tutto può succedere: l’importante è sapere che
si sta sognando, ovvero fare il cosiddetto ‘sogno lucido’. In questo modo non
sono più necessarie etichette sociali o morali: si può osservare e vivere, in
perfetta presenza, accogliendo tutto ciò che si manifesta.
Passando ad un altro tema… hai dedicato una serie di fotografie a statue di angeli e l’hai intitolata “Es-senza-ali”, dove ‘essenza’ e ‘ali’ sembrano accompagnarsi…
Si, in effetti ho giocato con il titolo: “Es-senza-ali”.
Mi sembrava significativo il fatto che l’essenza sia appunto es-senza, cioè senza ego, senza personalità. Il nucleo fondamentale dell’uomo trascende il senso dell’Io. Cos’è l’Io? Provo a spiegarlo facendo riferimento al termine usato in sanscrito: ‘ahamkara’, che significa ‘fatto di io’. Perché appunto l’ego, il senso dell’Io, è quell’insieme di percezioni, azioni, credenze, ruoli, etichette che definisce il soggetto, separandolo da ciò che non è imputabile all’Io.
Nella tua ultima serie “Foto-sintesi”, i protagonisti sono gli alberi e – ancor prima di essi - la luce: elemento essenziale, appunto, perché la fotosintesi e la produzione di ossigeno siano possibili. Nel post-produzione di questa serie – come hai affermato - hai trasformato “gli alberi in forme più eteree inondate di luce”. La luce, d’altra parte, è l’elemento che consente il processo fotografico. Per Roland Barthes, è “un nucleo carnale, una pelle” che il fotografo condivide con l’oggetto fotografato. Cosa pensi di questo?
Al buio, non si può scorgere nessuna forma visibile. La forma
viene definita da un gioco di chiaroscuri: per questo Barthes ha definito la
luce come “una pelle” che delimita e definisce gli oggetti, necessaria affinché
si riconoscano come distinti e separati tra di loro.
Al contempo, però, se ci fosse solo luce, noi vedremmo gli oggetti nella loro realtà, cioè vuoti, inconsistenti. Ti è mai capitato di essere accecata da una forte luce? Non si vede assolutamente più niente.
La luce è vibrazione ed è la nostra essenza, o meglio è l’essenza di tutte le cose. È ciò che più si avvicina all’origine del mondo, diventando poi suono e colore e dando vita successivamente alla manifestazione - così come noi la percepiamo con la vista e l’udito. In fisica, vi è un esperimento noto come “esperimento della doppia fenditura”. Se una particella – ad esempio un fotone, ossia una particella di luce - viene proiettata su una barriera con due aperture, attraversa inaspettatamente entrambe le fenditure simultaneamente sotto forma di onda – e le onde si collegano anche al suono – per poi giungere a destinazione come particella, ossia sotto forma di materia. Questa doppia natura dell’energia – materia e onda - i saggi in Oriente la conoscevano bene, tanto che evocavano il divino attraverso i mantra - i suoni sacri - e gli yantra, le forme divine corrispondenti.
La luce fa apparire l’oggetto, ma giocando con le foto,
aumentandone la luminosità, si può osservare come l’oggetto inizi a scomparire
nella forma per apparire nell’essenza.
Almeno io ho immaginato questo effetto, quando nel
post-produzione della serie “Foto-sintesi” ho volutamente distorto le foto
degli alberi, quasi fossero a infrarossi. E il risultato non si è fatto
attendere...
Ed è proprio lì, nel puntare all’essenza, che si può trovare il filo leggero che percorre la ricerca fotografica di Adriana Moretto. Fotografare per lei è “un gesto che significa fermare il tempo, condensando eternamente l’attimo, e oltrepassare lo spazio, agganciando l’anima degli eventi”. Nei suoi scatti, la natura, i corpi, gli oggetti, si fanno trasparenti, pronti ad evocare quello che vive, impermanente, dietro ogni cosa.
Adriana Giulia Moretto è nata a Bassano del Grappa e attualmente vive in provincia di Verona. Laureata in Scienze Politiche, è Counselor, Istruttrice di Mindfulness e consulente di Fiori di Bach. Autentica appassionata di viaggi in Oriente, ha vissuto profonde esperienze a contatto con le tradizioni spirituali millenarie del sud-est asiatico. Attualmente sta lavorando ad un progetto finalizzato alla divulgazione degli antichi mantra, attraverso uno studio approfondito del loro suono originario.
L’amore per la fotografia l’accompagna da sempre.
Per saperne
di più potete consultare il suo sito:
www.adrianamoretto.it
Intervista a cura di Camilla Ugolini Mecca
Fotografie di Adriana Giulia Moretto







