Intervista a Alla Chiara Luzzitelli II parte - Luce, candore, liberazione

 

Luce, candore, liberazione

L’arte di Alla Chiara Luzzitelli

Intervista a cura di Camilla Ugolini Mecca

II parte

©Alla Chiara Luzzitelli


In questa seconda parte dell’intervista, vorrei partire dalla poesia e in particolare da una tua frase, in cui affermi che la poesia “ha il potenziale di farci riscoprire la bellezza e la forza intrinseca di ogni singola parola”. Concordo pienamente con questo. Le poesie della tua silloge “Otto betulle” - edita nel 2022 da Europa Edizioni - sono brevi, incisive, quasi degli haiku, e hanno la qualità di polarizzare l’attenzione su ogni fonema. Sono come degli scatti. C’è qualcosa che lega il tuo modo di fare fotografia a questo tuo modo di scrivere?

Assolutamente, l'influenza della fotografia è stata determinante in tutti i miei progetti, che spaziano dal campo cinematografico alla scrittura. Se dovessi sintetizzare il mio stile di scrittura, lo descriverei come breve e tagliente, come l'immagine di una persona che, in un momento estremo di intensità emotiva - quasi in preda a un impeto - grida una frase e una parola. Credo che ognuno di noi abbia sperimentato almeno una volta il bisogno di urlare qualcosa, quasi a caso, per liberare le proprie emozioni. Quando ho iniziato a scrivere le prime poesie a quattordici anni, il mio approccio era principalmente quello di esplorare e descrivere stati d'animo. Tuttavia, nel corso degli ultimi otto anni, durante la mia rinascita poetica, le parole hanno acquisito un significato più profondo. Ogni singola lettera, ogni singolo accento riflettono il mio ritratto interiore, dove la priorità è far comprendere immediatamente lo stato d'animo. Questa esigenza è strettamente legata a stati emotivi ben precisi: alcuni richiedono solo poche parole, mentre altri necessitano di una descrizione più articolata con numerosi aggettivi. Il libro “Otto betulle” rappresenta dieci anni della mia vita: l’adolescenza, la prima età adulta, la seconda età adulta. Le poesie sono molto soggettive e possono essere interpretate in modi diversi. I temi ricorrenti sono l’amore, la paura, la fuga e la comprensione. Nel contesto della stesura del testo, l'obiettivo era una liberazione frastornante e decisa, un bisogno profondo di esprimere con forza e chiarezza.

©Alla Chiara Luzzitelli

Come hai raccontato in precedenti interviste, le poesie della raccolta nascono anche dall’esigenza di rielaborare la tua esperienza infantile in Russia, il tuo Paese d’origine.  Puoi parlarci di questo?

Io sono nata nel 1998 a Litpetzk, una città a sud-ovest della Russia. Da quello che so, sono stata lasciata in ospedale molto piccola e poi affidata ad un orfanatrofio. In quegli anni c’erano tantissimi bambini destinati agli orfanatrofi. Dal punto di vista demografico c'è stato un periodo in cui la Russia è cresciuta in modo importante, ma poi c’è stata la recessione e gli orfanatrofi – i Dietzki Dom, le “Case dei bambini” - sono diventati molto numerosi. A Litpetzk – una delle città russe più importanti dal punto di vista industriale, all’interno di un’area prevalentemente contadina - c’era un istituto: era molto grande, con un bellissimo giardino e dei cancelli attorno. Io sono cresciuta lì fino agli otto anni, pensando che non ci fosse nulla al di fuori di Litpetzk, di Mosca e San Pietroburgo. E questo in un Paese vastissimo come la Russia, dove convivono moltissime etnie, religioni e culture. Tutta la cultura che ho assorbito allora mi è arrivata da persone di circa cinquant’anni, l’età media della città dove sono nata. L’istituto era strutturato come fosse una scuola, e organizzato a fasce di età. Noi bambini siamo cresciuti come dei soldati: le educatrici che si occupavano di noi ci insegnavano ad essere duri, a non dare troppo spazio alle emozioni. E lo facevano attraverso piccoli fatti quotidiani. Ci svegliavano prestissimo, sempre all’alba. Forse volevano farci vedere il sole, la luce, e questo è un bel ricordo per me. Il clima russo ti permette di vedere dei colori incredibili. Mi ricordo questo sole rosso che rifletteva sulle nuvole morbide, con un effetto bellissimo. Poi, dopo la sveglia, facevamo una colazione molto semplice, a seconda delle risorse della struttura, e quindi andavamo fuori a fare “ricreazione”. Poi un’altra merenda, un po’ di televisione, il pranzo, poi un riposino, e a seconda della stagione andavamo fuori, giocavamo, facevamo le sculture di neve... Insomma una routine molto precisa, molto rigida. Vivevamo all’interno dei cancelli, vedevamo fuori le persone che passavano ma non potevamo uscire…

Da ciò che racconti, mi sembra che in questa esperienza ricorrano alcuni elementi che adesso si ritrovano nelle tue opere, siano esse le poesie oppure i cortometraggi. C’è la luce, che non è solo illuminazione, ma è anche consapevolezza di essere vivi. C’è la vastità dello spazio aperto, della natura. E c’è anche l’essenzialità: anche se immagino che dietro ai tuoi lavori ci sia moltissima progettazione, ciò che arriva a me è una sorta di distillato di gesti e di elementi. Sei d’accordo con questa visione?

Sono d’accordo e mi stai anche dando una mano, perché quando si è pieni di tanta storia, è molto difficile descrivere un proprio progetto, non si riesce a comprendere bene da dove arrivi un’idea. Nel 2019, quando ho realizzato “Procedura di Liberazione” (cfr. I parte dell'intervista), avevo vent’anni e sentivo l’esigenza di ritrovare ancora più luce rispetto al mio passato. Anche quando sai che un trauma è superato, hai comunque bisogno di fare altra ricerca. Noi siamo sempre alla ricerca di una luce, tutti noi. Perché ognuno si porta dietro una croce: anche se abbiamo la capacità di superare i traumi, allo stesso tempo abbiamo la necessità di avere una croce sulle spalle. Noi esseri umani non siamo in grado di restare nel benessere, di vivere senza un peso, senza un problema. I problemi ci distraggono, altrimenti arriverebbe la noia. Quindi li creiamo per poi trovarne la soluzione, per arrivare alla luce. A vent’anni anni sentivo il bisogno di avere un altro tipo di croce che non fosse il mio passato, perché lo avevo già snocciolato tanto. E avevo bisogno di liberazione. Mi sentivo confusa, provavo dolore e rabbia… E quindi ho sentito la necessità di proporre questa luce, attraverso “Procedura di Liberazione” e più tardi con il corto “Otto betulle” che parla sempre di liberazione. Sono d’accordo anche sullo spazio e sull’essenzialità.  È importante per me che ci sia tanto spazio, perché spesso da piccola ho vissuto esperienze dove c’era buio e ambienti soffocanti, esperienze per cui mi sono sentita in una sorta di claustrofobia emotiva. Ho superato queste esperienze però questa forma di claustrofobia è rimasta, tanto che ad esempio faccio molta fatica a fotografare le persone da molto vicino. Sento che le persone così non potrebbero essere rappresentate al loro meglio. È come se il soggetto dovesse schiacciarsi in un frame, che è come una scatola. Nel mio metodo di fare riprese - che siano fotografiche o video - chiedo alle persone di muoversi, anche di saltare e faccio tantissimi scatti, come fossero riprese in corsa, ed è lì che ottengo un movimento vero. Tutte le immagini che ho realizzato – tranne quelle nel mondo della moda – le ho fatte così. Le persone in genere hanno bisogno di interpretare un ruolo, in cui spesso sono ingabbiate. Siamo tutti un po’ claustrofobici emotivamente. Ognuno di noi interpreta ogni giorno la parte che vuole interpretare, in fondo siamo tutti un po’ pirandelliani. Però penso che faccia piacere - quando si è ripresi - interpretare un ruolo che avremmo sempre voluto interpretare, senza mai avere la possibilità di farlo. Chiedere alle persone di correre e di stancarsi permette loro di rilassarsi. E alla fine non hanno più paura della telecamera. Per assurdo ne hanno più paura quando sono nel loro ruolo quotidiano, piuttosto che quando ne escono.

©Alla Chiara Luzzitelli

Nella raccolta di poesie “Otto betulle” – da cui è nato anche il cortometraggio omonimo, cui hai fatto cenno – ricorrono alcune parole: ricordi, silenzio, protezione… In qualche modo le sento collegate. Ognuna di esse, cosa significa per te?

Quando si parla di ricordi, silenzio e protezione, si tratta di elementi che insieme creano un'immagine apparentemente delicata, ma che in realtà nasconde una profonda forza interiore. I ricordi sono una parte essenziale della mia vita. Penso che il modo in cui vediamo le situazioni dipenda da come abbiamo vissuto soprattutto nei primi anni di vita, che sono i più importanti. La percezione che abbiamo di una situazione deriva dai nostri ricordi. Se un bambino nasce in una famiglia in cui si litiga sempre, nel momento in cui diventa grande e vede due persone litigare, entra in uno stato di agitazione, di ansia, perché il suo inconscio gli ricorda il suo passato conflittuale. I ricordi sono una presenza patinata, invisibile. È come se ci si mettesse degli occhiali con un filtro, un filtro che si è creato attraverso l’esperienza vissuta nella fase più importante della vita, quella infantile. Gli otto anni trascorsi in Russia per me sono stati fondamentali. Là ad esempio non c’era possibilità di litigare, e noi non potevamo aver ragione. Quindi adesso se vedo due persone litigare cerco di fare in modo che non lo facciano, perché ciò che mi è rimasto è l’idea che non si litiga. Lo trovo inutile. I ricordi sono una presenza, un velo che si ha di fronte. Quando andiamo in un luogo, abbiamo delle sensazioni, diverse da quelle che può avere un’altra persona. È questo l’aspetto fondamentale dei ricordi: lasciano impressioni diverse. Fin da piccola, ho vissuto nei ricordi come fonte di consolazione e, soprattutto, come mezzo per comprendere me stessa e per intraprendere un percorso di trasformazione continua. Per quanto riguarda il silenzio, d'altra parte, penso sia un diritto acquisito sin dalla nascita, ma va oltre il suo significato letterale. Può essere interpretato come rumore, suono, grido o anche come un silenzio emotivo, quando i sentimenti sembrano fermarsi, pur continuando ad evolvere. Descrivere il silenzio è un compito arduo, forse più difficile addirittura dell'amore, poiché è un'esperienza che si percepisce in modo non lineare e netto. La protezione, infine, riguarda la sfera delle emozioni umane. A dispetto delle apparenze, l'essere umano è uno dei maggiori custodi della propria sfera emotiva. Spesso, per mantenere un certo equilibrio interno, evitiamo di dire o fare determinate cose. La protezione è un tema che può risultare tabù, semplicemente perché non sempre si dedica lo spazio sufficiente a riflettere su di esso. Costantemente ci proteggiamo attraverso diverse vie, ad esempio attraverso l'arte, poiché ne sentiamo profondamente il bisogno. Credo che essere artisti rappresenti una grande protezione per certe persone, che se non facessero questo tipo di vita, forse diventerebbero dei serial killer! C’è un confine molto labile tra la sensibilità e la malattia mentale. Ci sono persone troppo sensibili che faticano ad affrontare la vita, e se mancano di quella stella che le fa essere artisti, allora rischiano di cadere nella malattia mentale. L’arte salva per chi ha quella stella in più e come averla è un mistero, è una manna dal cielo, o forse un cromosoma speciale. Ti salva perché ti permette di restare in un confine immateriale: ci sono persone che possono vivere di arte senza mai fare un progetto, ma sono comunque artisti, hanno quella stella in più. Il concetto dell’arte è così vasto, è come la morte, come la vita e l’amore. Dimensioni che non riesci a spiegare fino in fondo…

Delicatezza e forza: due dimensioni rappresentate dalla natura, in particolare dai fiori - creature a cui sembri molto legata e che sono spesso presenti nei tuoi lavori - e anche dagli alberi, emblemi – nelle tue poesie – di protezione. Puoi parlarci del tuo rapporto con questi elementi e in generale con la natura?

Anche il mio profondo legame con la natura affonda le radici nella mia infanzia trascorsa in Russia, dove l'iconico albero di betulla domina il paesaggio. Questo albero, ancor oggi, rappresenta per me un simbolo intrinseco delle mie origini. La sua presenza evoca ricordi tangibili e un senso di connessione con le mie radici. Non riesco a delineare con certezza le ragioni di questo legame profondo, ma credo che la natura rappresenti, in un certo senso, l'essenza stessa dell'esistenza. Sia che si tratti di un fiore che sboccia, del vento che sussurra o di un animale che si muove, questo mondo naturale ha la capacità di esistere indipendentemente dall'influenza umana. Forse è proprio questa autonomia che mi spinge ad apprezzare la natura, poiché mantiene un egoismo fedele e necessario per la propria sopravvivenza, ma allo stesso tempo conserva un'intrinseca empatia nei confronti del resto del mondo vivente. Apprezzo questa capacità della natura di mantenere un equilibrio tra egoismo ed empatia.  L'essere umano è solo uno degli attori in questo grande palcoscenico naturale. La natura può prosperare indipendentemente da noi, e questo ci ricorda la nostra posizione di coabitanti, piuttosto che dominatori. In fondo, siamo solo una piccola parte di un tessuto più ampio, e il rispetto per la natura è essenziale per preservare l'armonia di questo intricato sistema.

©Alla Chiara Luzzitelli

Anche il mio legame con i fiori trova le sue radici in Russia. Un ricordo indelebile è legato ai mesi estivi, quando le margherite sbocciavano dalla terra come piccoli funghi. Durante quei momenti, alcune donne dell’orfanotrofio mi insegnarono l'arte di creare corone di fiori, una pratica intrinseca alla tradizione russa. Questi insegnamenti hanno contribuito a plasmare la mia connessione emotiva con i fiori. Durante la mia adolescenza, ho cominciato a vedere i fiori attraverso una prospettiva più profonda, attribuendo loro significati più nascosti. In particolare, ho sperimentato una nuova comprensione della simbologia dei fiori, andando oltre la loro bellezza esteriore. La complessa geometria dei petali è una delle caratteristiche più affascinanti dei fiori. La loro capacità di creare forme uniche è un vero spettacolo. Ciò che mi stupisce di più è la resistenza di queste strutture durante eventi atmosferici avversi, nonostante i quali mantengono intatto il loro nucleo. È un'illustrazione tangibile di forza e bellezza incondizionate. La pazienza dei fiori, così come quella della natura in generale, è un insegnamento prezioso per me. Mi insegna a essere resiliente di fronte alle sfide e ad apprezzare il processo di crescita, anche nei momenti difficili. Questo connubio di delicatezza e resistenza è un costante richiamo a mantenere la calma e la gratitudine, qualità che cerco di coltivare nella mia vita quotidiana.

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Nel cortometraggio “Otto betulle” - tratto dalla raccolta poetica e vincitore del premio "Lorenzo il Magnifico" alla Biennale di Firenze 2023 – si incontrano molti temi: la fuga da ciò che provoca paura o dolore, la possibilità di pacificazione e la conseguente liberazione. E la presenza costante degli elementi naturali – terra, fuoco, aria, fino all’acqua che lava, purifica e permette di rinascere. È come se si fosse in presenza di un rituale antichissimo. Vuoi parlarci di come è nato questo splendido corto?

Inizialmente nella mia testa la persona che mi insegue nel corto voleva essere Lucifero, l’angelo caduto. Non voleva avere uno scopo religioso - in questo sono stata molto chiara con me stessa e con le persone che hanno collaborato con me - perché non volevo che il cortometraggio venisse collegato a nessun tipo di religione. I quattro elementi in realtà sono presenti in tutte le religioni, il battesimo con l’acqua ad esempio non è collegato solo al cattolicesimo. L’uomo che nel cortometraggio cerca di afferrarmi e che mi perseguita, che è vicino ma non riesce mai a prendermi, rappresenta quel tunnel da cui tutti cerchiamo di fuggire. Per ciascuno questo tunnel è una cosa diversa. Per me ad esempio è stata la depressione. L’uomo che mi insegue può essere la depressione, o la noia. Quando nel corto quest’uomo è molto vicino a me, accanto al fuoco, quando siamo praticamente attaccati, significa che per quanto si possa trovare liberazione, ciò che ci perseguita è sempre nei paraggi. Quando superi un ostacolo, lo archivi, ma non lo elimini. Ed è necessario che le cose si archivino. Solo se le archiviamo siamo in grado di capire quanto siamo andati avanti e quello che potremmo migliorare. Se eliminassimo del tutto il nostro passato, non potremmo crescere. E proprio perché sappiamo che ciò che ci perseguita potrebbe ritornare, in modo conscio o inconscio attiviamo dei comportamenti per far sì che non ritorni. L’allerta di sapere che qualcosa è proprio lì, che può tornare, fa attivare dei meccanismi mentali e pratici. Il cortometraggio è anche collegato agli elementi naturali. Io in particolare mi sento molto legata al vento, nel senso che io stessa mi sento vento. Quando arriva una tempesta, quando c’è tantissimo vento, mi sento molto felice. Mi piace sentire il vento, lo sento mio amico. Non mi spaventa, è come se mi sentissi intoccabile. Il vento, anche nei miei scritti, è fondamentale, come lo è il tempo. Il tempo inteso come cura, ma anche come ingiuria. Il tempo e il vento sono due elementi anche presenti nella mia fotografia.

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Tu sei un’artista completa, secondo me. Che cosa ha contribuito a spingerti verso la scelta del percorso artistico che stai seguendo?

Innanzitutto i miei genitori. Sanno bene cosa vuol dire dare spazio ad un progetto, e investire in esso.  Quello che mi ha avvicinato di più al mio percorso è stata la libertà che ho ricevuto da loro: nel momento in cui volevo realizzare un progetto, mi hanno permesso di avere il tempo e lo spazio necessario, poiché conoscono la preproduzione e quello che ne consegue. Sanno anche a livello psicologico cosa significa lavorare ad un progetto. Credo che per i miei sia stato molto difficile separare il mio ruolo di figlia dal mio essere artista: una fase artistica delicata rischia di essere interpretata come una crisi personale, psicologica. I miei hanno sempre avuto molta pazienza con me e sono sempre stati consapevoli del fatto che io fossi un po’ speciale. Per me essere speciali è avere dei comportamenti che oggi sono considerati dei disturbi. Anche quando in Russia da piccoli facevamo una scultura di ghiaccio, ad esempio, io dovevo finirla entro il tempo che avevamo per la ricreazione, e se non la finivo mi arrabbiavo con me stessa.  Ancora oggi o le cose le faccio subito, dedicandovi tutta me stessa, oppure le finisco in un tempo diluito, perché si inseriscono altri progetti. Sono una persona che quando ha un progetto deve portarlo avanti fino allo sfinimento, senza distrazioni. Io mi distraggo facilmente, e per lavorare devo essere molto concentrata. Quando trovo la dimensione in cui riesco a non distrarmi, devo concludere il progetto. E a vent’anni non è stato facile, perché avevo tante distrazioni emotive. In Russia, da bambini, tenevamo noi i giardini, e quando c’era il periodo di cambio del terreno - perché poi in primavera nascessero fiori sani - io dovevo farlo in modo meticoloso. Non era il mio mestiere, ma lo volevo fare bene. Questo comportamento un po’ ossessivo mi ha consentito di diventare molto curiosa su tanti temi diversi, e ancora adesso se leggo una parola e non la conosco, vado a cercarla e mi appassiono al punto che vorrei studiare la materia a cui fa riferimento, ma poi cambio perché mi interesso ad altro. Questa modalità è stata stressante soprattutto nelle decisioni più importanti di vita, perché in fondo io volevo fare tutto. Per me la noia è molto pericolosa. Ecco, la paura della noia e il fatto che qualcosa non mi basti più sono gli aspetti che mi spingono a poter realizzare qualcosa di nuovo. Quando mi sono accorta che la fotografia non mi bastava, che non era più stancante psicologicamente, sono passata alla musica. Quando la musica non mi è bastata più, sono tornata alla scrittura e l’ho sviluppata, studiando le regole della grammatica poetica. E poi quando la poesia non mi è bastata più, sono tornata al cinema. In questa modalità di passare da un luogo all’altro, c’è stata una fase di noia: sapevo che poesia e musica mi avrebbero portato via molto tempo, quindi ho iniziato a fare performance. Sapendo che scrivere un libro mi avrebbe richiesto almeno un anno, e che non avrei potuto passare questo tempo solo scrivendo, sentivo di dover fare anche altro. Ogni anno sento il desiderio di fare qualcosa di più grande, gli elementi che ho usato prima non mi bastano più. E adesso sto attraversando una fase in cui devo comprendere di cosa ho bisogno, ma quando sei nel mezzo del cambiamento non è facile comprenderlo…

Hai mai pensato di realizzare un tuo progetto basandoti su testi di altri autori?

Ci ho pensato, ma mi fa paura. La mia visione sarebbe diversa inevitabilmente da quella di chi scrive. Un testo, mi chiedo, a livello filmico andrebbe interpretato secondo la mia visione o quella dello scrittore? Cosa vale di più in un progetto, lo scritto originale o il film? E allora chi collabora con chi? Lo scambio è necessario, ma io credo di essere molto ‘egocentrica’ a livello artistico, nel senso che se lavoro ad un film, voglio avere il controllo emotivo su tutto, e sapere al cento per cento cosa intendo trasmettere. Se dovessi interpretare un testo altrui, potrei passare ore a parlarne con l’autore, ma anche dopo ore io non potrei sapere completamente ciò che sente chi scrive, perché a volte è inspiegabile. Io sento di non avere il diritto di avere accesso alla parte più inconscia di ciò che gli altri scrivono.

Come vivi il mondo artistico che ti circonda? Senti che esiste collaborazione fra gli artisti?

Posso fare un confronto fra Torino, la città in cui vivo, e Milano, dove ho lavorato da giovanissima. A Torino, se capita di incontrare un artista e immaginare una collaborazione, l’altro alla fine sparisce. A Milano – dove ho passato la mia adolescenza lavorando nei week-end – succede il contrario: il progetto comune si realizza. Il rischio però è che si tratti solo di incontri fittizi, finalizzati ad un progetto e basta. A Milano ho lavorato molto nella moda: ero adolescente e avevo a che fare con persone molto più grandi di me. Avevo fame di fare questo mestiere, di restare in quel mondo, di capire come funzionava il mercato, ed è stato bellissimo, ma allo stesso tempo non ho potuto creare relazioni. Le persone là stavano con me solo per lavoro. Era tutto finalizzato al lavoro. Io ero piccola per capirlo, pensavo fossero relazioni vere. E tutto questo mi ha portato ad un momento di forte stress e per un periodo me ne sono andata. Non avevo relazioni a Milano, e le avevo perse a Torino. Ero sola. Questa solitudine mi ha aiutata al tempo, oggi al contrario un adolescente se sta da solo entra in crisi. Un ragazzo che oggi esce dalla scuola e va subito a lavorare, ma non è abituato a risolvere i problemi velocemente. Io mi sono ritrovata improvvisamente adulta in un periodo in cui avrei solo dovuto rilassarmi e crescere naturalmente, ma non lo rinnego, l’ho voluto io. Adesso se ho a che fare con un cliente e succede un problema, so trovare una soluzione. La domanda primaria è: cosa significa essere artisti? Oggi il termine ‘artista’ viene usato a sproposito, secondo me. Molti si definiscono artisti ma sono solo molto bravi nella loro tecnica. Essere artisti secondo me è qualcosa che devi sentire dentro. È una stella, ha a che fare col sentimento. Quando Kant scrive la “Critica del Giudizio” - che è quella più importante, perché vi parla dell’arte - affronta proprio questo tema. Essere artisti è non avere materiale e riuscire comunque a realizzare un progetto. Molti artisti che fanno cortometraggi hanno bisogno di avere molte persone e molto materiale. Ma quello secondo me non equivale ad essere artisti. Essere artisti è avere tutto già nella tua testa, fatto e finito.  Con pochissimi mezzi si trova il modo per realizzarlo. Sei un artista quando non pensi al tuo progetto come ad un prodotto. I concorsi, le proposte, i premi possono arrivare dopo, ma non si deve lavorare per i risultati.  Il Neorealismo, ad esempio, descrive molto bene tutto questo: quando è stato realizzato “Ladri di biciclette" - che il mio film preferito dell’epoca - il Neorealismo era detestato, e poi dopo anni hanno scoperto questo mondo, ha avuto successo anche negli Stati Uniti e molti hanno cercato di imitarlo. Con “Ladri di bicilette si voleva far capire quanto la guerra avesse tolto, ma quanto comunque si fosse felici, questo era il messaggio. L’artista vero non realizza un progetto per soddisfare il pubblico. Non lo realizza per avere un consenso, o un’identità. Lo fa perché ne ha bisogno.

 

 Alla Chiara Luzzitelli, in arte Alicka, è nata il 16 maggio 1998 a Litpetzk, in Russia. Ha vissuto per otto anni in orfanotrofio prima di essere adottata dalla famiglia italiana Luzzitelli, con la quale si è trasferita a Torino. Inizia la sua carriera artistica nell'adolescenza quando, in occasione di Paratissima 2014 - l'evento artistico annuale di Torino - presenta il suo primo progetto fotografico, intitolato "Come la gente non vorrebbe mai mostrarsi". Grazie a questa esperienza, l'artista ha l'opportunità di conoscere diverse personalità, tra cui il critico d'arte Giorgio Bonomi, con cui realizza un progetto sull'autoritratto, esposto in modo permanente nella Galleria Musinf di Senigallia. Negli anni successivi partecipa a diverse mostre, tra cui quelle presso le gallerie Satura (Genova, 2014) e Crivelli (Bergamo, 2015); poi alla Biennale di Genova 2015 Expo Intl contemporary art, vincitrice del Premio Artista Emergente, Paratissima Torino 2015, Genova ART Expo 2016. Negli stessi anni studia fotografia e grafica all'istituto "Albe Steiner" di Torino e lavora come fotografa a Milano per diverse agenzie. Si diploma nel 2019. Durante l'adolescenza continua a sviluppare la sua scrittura attraverso poesie che verranno pubblicate solo nel 2022, anno in cui decide di scrivere una raccolta di nuove poesie unendole a quelle scritte in precedenza. Dopo il liceo, inizia gli studi di cinematografia a Torino, specializzandosi in regia. con Gianni Amelio. Nel 2019, in collaborazione con il compositore Mattia Vlad Morleo, ha realizzato un album di poesie intitolato “Procedura di Liberazione”, da cui ha tratto un cortometraggio che le è valso il premio “Lorenzo il Magnifico, il secondo posto alla biennale di Firenze e la partecipazione a cinque festival cinematografici internazionali.  

Nel 2022 sente il bisogno di dare finalmente spazio ai suoi scritti, e inizia così la stesura della raccolta poetica “Otto Betulle”, titolo che deriva dalla sua infanzia e dal numero di anni vissuti nel paese d'origine.  

Infine, ha vinto il premio "Lorenzo il Magnifico" per il cortometraggio "Otto Betulle" alla Biennale di Firenze 2023.


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