Intervista a Alla Chiara Luzzitelli II parte - Luce, candore, liberazione
Luce, candore, liberazione
L’arte di Alla Chiara Luzzitelli
Intervista a cura di Camilla Ugolini Mecca
II parte
©Alla Chiara Luzzitelli
In questa seconda parte
dell’intervista, vorrei partire dalla poesia e in particolare da una tua frase,
in cui affermi che la poesia “ha il potenziale di farci
riscoprire la bellezza e la forza intrinseca di ogni singola parola”.
Concordo pienamente con questo. Le poesie della tua silloge “Otto betulle” -
edita nel 2022 da Europa Edizioni - sono brevi, incisive, quasi degli haiku, e
hanno la qualità di polarizzare l’attenzione su ogni fonema. Sono come degli
scatti. C’è qualcosa che lega il tuo modo di fare fotografia a questo tuo modo
di scrivere?
Assolutamente, l'influenza della fotografia è stata determinante
in tutti i miei progetti, che spaziano dal campo cinematografico alla scrittura. Se dovessi sintetizzare il mio stile di scrittura, lo descriverei
come breve e tagliente, come l'immagine di una persona che, in un momento
estremo di intensità emotiva - quasi in preda a un impeto - grida una frase e una
parola. Credo che ognuno di noi abbia sperimentato almeno una volta il bisogno
di urlare qualcosa, quasi a caso, per liberare le proprie emozioni. Quando ho
iniziato a scrivere le prime poesie a quattordici anni, il mio approccio era
principalmente quello di esplorare e descrivere stati d'animo. Tuttavia, nel
corso degli ultimi otto anni, durante la mia rinascita poetica, le parole hanno
acquisito un significato più profondo. Ogni singola lettera, ogni singolo accento
riflettono il mio ritratto interiore, dove la priorità è far comprendere
immediatamente lo stato d'animo. Questa esigenza è strettamente legata a stati
emotivi ben precisi: alcuni richiedono solo poche parole, mentre altri
necessitano di una descrizione più articolata con numerosi aggettivi. Il libro “Otto betulle” rappresenta dieci anni della mia
vita: l’adolescenza, la prima età adulta, la seconda età adulta. Le poesie sono
molto soggettive e possono essere interpretate in modi diversi. I temi
ricorrenti sono l’amore, la paura, la fuga e la comprensione. Nel
contesto della stesura del testo, l'obiettivo era una liberazione frastornante
e decisa, un bisogno profondo di esprimere con forza e chiarezza.
Come hai raccontato in precedenti interviste, le poesie della
raccolta nascono anche dall’esigenza di rielaborare la tua esperienza infantile
in Russia, il tuo Paese d’origine. Puoi
parlarci di questo?
Io sono nata nel 1998 a Litpetzk, una
città a sud-ovest della Russia. Da quello che so, sono stata
lasciata in ospedale molto piccola e poi affidata ad un orfanatrofio. In quegli
anni c’erano tantissimi bambini destinati agli orfanatrofi. Dal punto
di vista demografico c'è stato un periodo in cui la Russia è cresciuta in modo importante, ma poi c’è stata
la recessione e gli orfanatrofi – i Dietzki Dom, le “Case dei bambini” - sono diventati
molto numerosi. A Litpetzk – una
delle città russe più importanti dal punto di vista industriale, all’interno di
un’area prevalentemente contadina - c’era un istituto: era
molto grande, con un bellissimo giardino e dei cancelli attorno. Io sono
cresciuta lì fino agli otto anni, pensando che non ci fosse nulla al di fuori di Litpetzk, di Mosca e
San Pietroburgo. E questo in un Paese vastissimo come la Russia, dove convivono
moltissime etnie, religioni e culture. Tutta la cultura che ho assorbito allora
mi è arrivata da persone di circa cinquant’anni, l’età media della città
dove sono nata. L’istituto era strutturato come
fosse una scuola, e organizzato a fasce
di età. Noi bambini siamo cresciuti come dei soldati: le educatrici che si
occupavano di noi ci insegnavano ad essere duri, a non dare troppo spazio alle
emozioni. E lo facevano attraverso piccoli fatti quotidiani. Ci svegliavano
prestissimo, sempre all’alba. Forse volevano farci vedere il sole, la luce, e
questo è un bel ricordo per me. Il clima russo ti permette di vedere dei colori
incredibili. Mi ricordo questo sole rosso che rifletteva sulle nuvole morbide,
con un effetto bellissimo. Poi, dopo la sveglia, facevamo una colazione molto
semplice, a seconda delle risorse della struttura, e quindi andavamo fuori a
fare “ricreazione”. Poi un’altra merenda, un po’
di televisione, il pranzo, poi un riposino, e a seconda della stagione andavamo
fuori, giocavamo, facevamo le sculture di neve... Insomma una routine molto
precisa, molto rigida. Vivevamo all’interno dei cancelli, vedevamo fuori le
persone che passavano ma non potevamo uscire…
Da ciò che
racconti, mi sembra che in questa esperienza ricorrano alcuni elementi che adesso
si ritrovano nelle tue opere, siano esse le poesie oppure i cortometraggi. C’è la
luce, che non è solo illuminazione, ma è anche consapevolezza di essere vivi.
C’è la vastità dello spazio aperto, della natura. E c’è anche l’essenzialità:
anche se immagino che dietro ai tuoi lavori ci sia moltissima progettazione,
ciò che arriva a me è una sorta di distillato di gesti e di elementi. Sei
d’accordo con questa visione?
Sono d’accordo e mi stai anche dando una mano, perché quando si è pieni di tanta storia, è molto difficile descrivere un proprio progetto, non si riesce a comprendere bene da dove arrivi un’idea. Nel 2019, quando ho realizzato “Procedura di Liberazione” (cfr. I parte dell'intervista), avevo vent’anni e sentivo l’esigenza di ritrovare ancora più luce rispetto al mio passato. Anche quando sai che un trauma è superato, hai comunque bisogno di fare altra ricerca. Noi siamo sempre alla ricerca di una luce, tutti noi. Perché ognuno si porta dietro una croce: anche se abbiamo la capacità di superare i traumi, allo stesso tempo abbiamo la necessità di avere una croce sulle spalle. Noi esseri umani non siamo in grado di restare nel benessere, di vivere senza un peso, senza un problema. I problemi ci distraggono, altrimenti arriverebbe la noia. Quindi li creiamo per poi trovarne la soluzione, per arrivare alla luce. A vent’anni anni sentivo il bisogno di avere un altro tipo di croce che non fosse il mio passato, perché lo avevo già snocciolato tanto. E avevo bisogno di liberazione. Mi sentivo confusa, provavo dolore e rabbia… E quindi ho sentito la necessità di proporre questa luce, attraverso “Procedura di Liberazione” e più tardi con il corto “Otto betulle” che parla sempre di liberazione. Sono d’accordo anche sullo spazio e sull’essenzialità. È importante per me che ci sia tanto spazio, perché spesso da piccola ho vissuto esperienze dove c’era buio e ambienti soffocanti, esperienze per cui mi sono sentita in una sorta di claustrofobia emotiva. Ho superato queste esperienze però questa forma di claustrofobia è rimasta, tanto che ad esempio faccio molta fatica a fotografare le persone da molto vicino. Sento che le persone così non potrebbero essere rappresentate al loro meglio. È come se il soggetto dovesse schiacciarsi in un frame, che è come una scatola. Nel mio metodo di fare riprese - che siano fotografiche o video - chiedo alle persone di muoversi, anche di saltare e faccio tantissimi scatti, come fossero riprese in corsa, ed è lì che ottengo un movimento vero. Tutte le immagini che ho realizzato – tranne quelle nel mondo della moda – le ho fatte così. Le persone in genere hanno bisogno di interpretare un ruolo, in cui spesso sono ingabbiate. Siamo tutti un po’ claustrofobici emotivamente. Ognuno di noi interpreta ogni giorno la parte che vuole interpretare, in fondo siamo tutti un po’ pirandelliani. Però penso che faccia piacere - quando si è ripresi - interpretare un ruolo che avremmo sempre voluto interpretare, senza mai avere la possibilità di farlo. Chiedere alle persone di correre e di stancarsi permette loro di rilassarsi. E alla fine non hanno più paura della telecamera. Per assurdo ne hanno più paura quando sono nel loro ruolo quotidiano, piuttosto che quando ne escono.
Nella
raccolta di poesie “Otto betulle” – da cui è nato anche il cortometraggio omonimo, cui hai fatto cenno – ricorrono alcune parole: ricordi, silenzio, protezione… In qualche modo le
sento collegate. Ognuna di esse, cosa significa per te?
Quando si parla di ricordi, silenzio e protezione, si tratta di
elementi che insieme creano un'immagine apparentemente delicata, ma che in
realtà nasconde una profonda forza interiore. I ricordi sono una parte
essenziale della mia vita. Penso che il modo in cui vediamo le situazioni dipenda
da come abbiamo vissuto soprattutto nei primi anni di vita, che sono i più
importanti. La percezione che abbiamo di una situazione deriva dai nostri
ricordi. Se un bambino nasce in una famiglia in cui si litiga sempre, nel
momento in cui diventa grande e vede due persone litigare, entra in uno stato
di agitazione, di ansia, perché il suo inconscio gli ricorda il suo passato
conflittuale. I ricordi sono una presenza patinata, invisibile. È come se ci si
mettesse degli occhiali con un filtro, un filtro che si è creato attraverso
l’esperienza vissuta nella fase più importante della vita, quella infantile. Gli
otto anni trascorsi in Russia per me sono stati fondamentali. Là ad esempio non
c’era possibilità di litigare, e noi non potevamo aver ragione. Quindi adesso se vedo due persone
litigare cerco di fare in modo che non lo facciano, perché ciò che mi è rimasto
è l’idea che non si litiga. Lo trovo inutile. I ricordi sono una presenza, un
velo che si ha di fronte. Quando andiamo in un luogo, abbiamo delle sensazioni,
diverse da quelle che può avere un’altra persona. È questo l’aspetto
fondamentale dei ricordi: lasciano impressioni diverse. Fin da piccola, ho
vissuto nei ricordi come fonte di consolazione e, soprattutto, come mezzo per
comprendere me stessa e per intraprendere un percorso di trasformazione
continua. Per quanto riguarda il silenzio, d'altra parte, penso sia un diritto acquisito sin
dalla nascita, ma va oltre il suo significato letterale. Può essere
interpretato come rumore, suono, grido o anche come un silenzio emotivo, quando
i sentimenti sembrano fermarsi, pur continuando ad evolvere. Descrivere il silenzio è
un compito arduo, forse più difficile addirittura dell'amore, poiché è
un'esperienza che si percepisce in modo non lineare e netto. La protezione,
infine, riguarda la sfera delle emozioni umane. A dispetto delle apparenze,
l'essere umano è uno dei maggiori custodi della propria sfera emotiva. Spesso,
per mantenere un certo equilibrio interno, evitiamo di dire o fare determinate
cose. La protezione è un tema che può risultare tabù, semplicemente perché non
sempre si dedica lo spazio sufficiente a riflettere su di esso. Costantemente
ci proteggiamo attraverso diverse vie, ad esempio attraverso l'arte, poiché ne
sentiamo profondamente il bisogno. Credo che essere artisti rappresenti una
grande protezione per certe persone, che se non facessero questo tipo di vita, forse
diventerebbero dei serial killer! C’è un confine molto labile tra la
sensibilità e la malattia mentale. Ci sono persone troppo sensibili che
faticano ad affrontare la vita, e se mancano di quella stella che le fa essere
artisti, allora rischiano di cadere nella malattia mentale. L’arte salva per
chi ha quella stella in più e come averla è un mistero, è una manna dal cielo,
o forse un cromosoma speciale. Ti salva perché ti permette di restare in un
confine immateriale: ci sono persone che possono vivere di arte senza mai fare
un progetto, ma sono comunque artisti, hanno quella stella in più. Il concetto
dell’arte è così vasto, è come la morte, come la vita e l’amore. Dimensioni che
non riesci a spiegare fino in fondo…
Delicatezza e forza: due dimensioni
rappresentate dalla natura, in particolare dai fiori - creature a cui sembri molto
legata e che sono spesso presenti nei tuoi lavori - e anche dagli alberi,
emblemi – nelle tue poesie – di protezione. Puoi parlarci del tuo rapporto con
questi elementi e in generale con la natura?
Anche il
mio profondo legame con la natura affonda le radici nella mia infanzia
trascorsa in Russia, dove l'iconico albero di betulla domina il paesaggio.
Questo albero, ancor oggi, rappresenta per me un simbolo intrinseco delle mie
origini. La sua presenza evoca ricordi tangibili e un senso di connessione con
le mie radici. Non riesco a delineare con certezza le ragioni di questo legame
profondo, ma credo che la natura rappresenti, in un certo senso, l'essenza stessa
dell'esistenza. Sia che si tratti di un fiore che sboccia, del vento che
sussurra o di un animale che si muove, questo mondo naturale ha la capacità di
esistere indipendentemente dall'influenza umana. Forse è proprio questa
autonomia che mi spinge ad apprezzare la natura, poiché mantiene un egoismo
fedele e necessario per la propria sopravvivenza, ma allo stesso tempo conserva
un'intrinseca empatia nei confronti del resto del mondo vivente. Apprezzo
questa capacità della natura di mantenere un equilibrio tra egoismo ed empatia.
L'essere umano è solo uno degli attori
in questo grande palcoscenico naturale. La natura può prosperare
indipendentemente da noi, e questo ci ricorda la nostra posizione di coabitanti, piuttosto che dominatori. In fondo, siamo solo una piccola parte di un tessuto
più ampio, e il rispetto per la natura è essenziale per preservare l'armonia di
questo intricato sistema.
Anche il
mio legame con i fiori trova le sue radici in Russia. Un ricordo indelebile è
legato ai mesi estivi, quando le margherite sbocciavano dalla terra come
piccoli funghi. Durante quei momenti, alcune donne dell’orfanotrofio mi
insegnarono l'arte di creare corone di fiori, una pratica intrinseca alla
tradizione russa. Questi insegnamenti hanno contribuito a plasmare la mia
connessione emotiva con i fiori. Durante la mia adolescenza, ho cominciato a
vedere i fiori attraverso una prospettiva più profonda, attribuendo loro
significati più nascosti. In particolare, ho sperimentato una nuova
comprensione della simbologia dei fiori, andando oltre la loro bellezza
esteriore. La complessa geometria dei petali è una delle caratteristiche più
affascinanti dei fiori. La loro capacità di creare forme uniche è un vero
spettacolo. Ciò che mi stupisce di più è la resistenza di queste strutture
durante eventi atmosferici avversi, nonostante i quali mantengono intatto il
loro nucleo. È un'illustrazione tangibile di forza e bellezza incondizionate.
La pazienza dei fiori, così come quella della natura in generale, è un
insegnamento prezioso per me. Mi insegna a essere resiliente di fronte alle
sfide e ad apprezzare il processo di crescita, anche nei momenti difficili.
Questo connubio di delicatezza e resistenza è un costante richiamo a mantenere
la calma e la gratitudine, qualità che cerco di coltivare nella mia vita
quotidiana.
Nel cortometraggio “Otto betulle” - tratto dalla raccolta poetica e vincitore del premio "Lorenzo il
Magnifico" alla Biennale di Firenze 2023 – si incontrano molti temi: la
fuga da ciò che provoca paura o dolore, la possibilità di pacificazione e la
conseguente liberazione. E la presenza costante degli elementi naturali –
terra, fuoco, aria, fino all’acqua che lava, purifica e permette di rinascere. È
come se si fosse in presenza di un rituale antichissimo. Vuoi parlarci di come
è nato questo splendido corto?
Inizialmente nella mia testa la persona che mi insegue nel corto voleva essere Lucifero, l’angelo caduto. Non voleva avere uno scopo religioso - in questo sono stata molto chiara con me stessa e con le persone che hanno collaborato con me - perché non volevo che il cortometraggio venisse collegato a nessun tipo di religione. I quattro elementi in realtà sono presenti in tutte le religioni, il battesimo con l’acqua ad esempio non è collegato solo al cattolicesimo. L’uomo che nel cortometraggio cerca di afferrarmi e che mi perseguita, che è vicino ma non riesce mai a prendermi, rappresenta quel tunnel da cui tutti cerchiamo di fuggire. Per ciascuno questo tunnel è una cosa diversa. Per me ad esempio è stata la depressione. L’uomo che mi insegue può essere la depressione, o la noia. Quando nel corto quest’uomo è molto vicino a me, accanto al fuoco, quando siamo praticamente attaccati, significa che per quanto si possa trovare liberazione, ciò che ci perseguita è sempre nei paraggi. Quando superi un ostacolo, lo archivi, ma non lo elimini. Ed è necessario che le cose si archivino. Solo se le archiviamo siamo in grado di capire quanto siamo andati avanti e quello che potremmo migliorare. Se eliminassimo del tutto il nostro passato, non potremmo crescere. E proprio perché sappiamo che ciò che ci perseguita potrebbe ritornare, in modo conscio o inconscio attiviamo dei comportamenti per far sì che non ritorni. L’allerta di sapere che qualcosa è proprio lì, che può tornare, fa attivare dei meccanismi mentali e pratici. Il cortometraggio è anche collegato agli elementi naturali. Io in particolare mi sento molto legata al vento, nel senso che io stessa mi sento vento. Quando arriva una tempesta, quando c’è tantissimo vento, mi sento molto felice. Mi piace sentire il vento, lo sento mio amico. Non mi spaventa, è come se mi sentissi intoccabile. Il vento, anche nei miei scritti, è fondamentale, come lo è il tempo. Il tempo inteso come cura, ma anche come ingiuria. Il tempo e il vento sono due elementi anche presenti nella mia fotografia.
Tu sei un’artista completa, secondo me. Che
cosa ha contribuito a spingerti verso la scelta del percorso artistico che stai
seguendo?
Innanzitutto
i miei genitori. Sanno bene cosa vuol dire dare spazio ad un progetto, e
investire in esso. Quello che mi ha
avvicinato di più al mio percorso è stata la libertà che ho ricevuto da loro: nel
momento in cui volevo realizzare un progetto, mi hanno permesso di avere il
tempo e lo spazio necessario, poiché conoscono la preproduzione e quello che ne
consegue. Sanno anche a livello psicologico cosa significa lavorare ad un
progetto. Credo che per i miei sia stato molto difficile separare il mio ruolo
di figlia dal mio essere artista: una fase artistica delicata rischia di essere
interpretata come una crisi personale, psicologica. I miei hanno sempre avuto
molta pazienza con me e sono sempre stati consapevoli del fatto che io fossi un
po’ speciale. Per me essere speciali è avere dei comportamenti che oggi sono
considerati dei disturbi. Anche quando in Russia da piccoli facevamo una
scultura di ghiaccio, ad esempio, io dovevo finirla entro il tempo che avevamo
per la ricreazione, e se non la finivo mi arrabbiavo con me stessa. Ancora oggi o le cose le faccio subito,
dedicandovi tutta me stessa, oppure le finisco in un tempo diluito, perché si
inseriscono altri progetti. Sono una persona che
quando ha un progetto deve portarlo avanti fino allo sfinimento, senza
distrazioni. Io
mi distraggo facilmente, e per lavorare devo essere molto
concentrata. Quando trovo la dimensione in cui riesco a non distrarmi, devo
concludere il progetto. E a vent’anni non è stato facile, perché avevo tante
distrazioni emotive. In Russia, da bambini, tenevamo noi i
giardini, e quando c’era il periodo di cambio del terreno - perché poi in
primavera nascessero fiori sani - io dovevo farlo in modo meticoloso. Non era
il mio mestiere, ma lo volevo fare bene. Questo comportamento un po’ ossessivo
mi ha consentito di diventare molto curiosa su tanti temi diversi, e ancora
adesso se leggo una parola e non la conosco, vado a cercarla e mi appassiono al
punto che vorrei studiare la materia a cui fa riferimento, ma poi cambio perché mi interesso ad
altro. Questa modalità è stata stressante soprattutto nelle decisioni più
importanti di vita, perché in fondo io volevo fare tutto. Per me la noia è molto
pericolosa. Ecco, la paura della noia e il fatto che qualcosa non mi basti più sono
gli aspetti che mi spingono a poter realizzare qualcosa di nuovo. Quando mi
sono accorta che la fotografia non mi bastava, che non era più stancante psicologicamente,
sono passata alla musica. Quando la musica non mi è bastata più, sono tornata
alla scrittura e l’ho sviluppata, studiando le regole della grammatica poetica.
E poi quando la poesia non mi è bastata più, sono tornata al cinema. In questa
modalità di passare da un luogo all’altro, c’è stata una fase di noia: sapevo
che poesia e musica mi avrebbero portato via molto tempo, quindi ho iniziato a
fare performance. Sapendo che scrivere un libro mi avrebbe richiesto almeno un
anno, e che non avrei potuto passare questo tempo solo scrivendo, sentivo di
dover fare anche altro. Ogni anno sento il desiderio di fare qualcosa di più
grande, gli elementi che ho usato prima non mi bastano più. E adesso sto
attraversando una fase in cui devo comprendere di cosa ho bisogno, ma quando
sei nel mezzo del cambiamento non è facile comprenderlo…
Hai mai pensato di realizzare un tuo
progetto basandoti su testi di altri autori?
Ci ho pensato, ma mi fa paura. La mia
visione sarebbe diversa inevitabilmente da quella di chi scrive. Un testo, mi
chiedo, a livello filmico andrebbe interpretato secondo la mia visione o quella
dello scrittore? Cosa vale di più in un progetto, lo scritto originale o il
film? E allora chi collabora con chi? Lo scambio è necessario, ma io credo di
essere molto ‘egocentrica’ a livello artistico, nel senso che se lavoro ad un
film, voglio avere il controllo emotivo su tutto, e sapere al cento per cento
cosa intendo trasmettere. Se dovessi interpretare un testo altrui, potrei
passare ore a parlarne con l’autore, ma anche dopo ore io non potrei sapere completamente
ciò che sente chi scrive, perché a volte è inspiegabile. Io sento di non avere
il diritto di avere accesso alla parte più inconscia di ciò che gli altri
scrivono.
Come
vivi il mondo artistico che ti circonda? Senti che esiste collaborazione fra
gli artisti?
Posso
fare un confronto fra Torino, la città in cui vivo, e Milano, dove ho lavorato da
giovanissima. A Torino, se capita di incontrare un artista e immaginare una
collaborazione, l’altro alla fine sparisce. A Milano – dove ho passato la mia
adolescenza lavorando nei week-end – succede il contrario: il progetto comune si
realizza. Il rischio però è che si tratti solo di incontri fittizi, finalizzati
ad un progetto e basta. A Milano ho lavorato molto nella moda: ero adolescente e
avevo a che fare con persone molto più grandi di me. Avevo fame di fare questo
mestiere, di restare in quel mondo, di capire come funzionava il mercato, ed è stato
bellissimo, ma allo stesso tempo non ho potuto creare relazioni. Le persone là
stavano con me solo per lavoro. Era tutto finalizzato al lavoro. Io ero piccola
per capirlo, pensavo fossero relazioni vere. E tutto questo mi ha portato ad un
momento di forte stress e per un periodo me ne sono andata. Non avevo relazioni
a Milano, e le avevo perse a Torino. Ero sola. Questa solitudine mi ha aiutata al tempo, oggi al contrario un adolescente se sta da solo entra in crisi. Un ragazzo che oggi esce dalla
scuola e va subito a lavorare, ma non è abituato a risolvere i problemi
velocemente. Io mi sono ritrovata improvvisamente adulta in un periodo in cui
avrei solo dovuto rilassarmi e crescere naturalmente, ma non lo rinnego, l’ho
voluto io. Adesso se ho a che fare con un cliente e succede un problema, so
trovare una soluzione. La domanda primaria è: cosa significa essere artisti?
Oggi il termine ‘artista’ viene usato a sproposito, secondo me. Molti si
definiscono artisti ma sono solo molto bravi nella loro tecnica. Essere artisti
secondo me è qualcosa che devi sentire dentro. È una stella, ha a che fare col
sentimento. Quando Kant scrive la “Critica del Giudizio” - che è quella più importante,
perché vi parla dell’arte - affronta proprio questo tema. Essere artisti è non
avere materiale e riuscire comunque a realizzare un progetto. Molti artisti che
fanno cortometraggi hanno bisogno di avere molte persone e molto materiale. Ma
quello secondo me non equivale ad essere artisti. Essere artisti è avere tutto
già nella tua testa, fatto e finito. Con
pochissimi mezzi si trova il modo per realizzarlo. Sei un artista quando non
pensi al tuo progetto come ad un prodotto. I concorsi, le proposte, i premi
possono arrivare dopo, ma non si deve lavorare per i risultati. Il Neorealismo, ad esempio, descrive molto
bene tutto questo: quando è stato realizzato “Ladri di biciclette" - che
il mio film preferito dell’epoca - il Neorealismo era detestato, e poi dopo
anni hanno scoperto questo mondo, ha avuto successo anche negli Stati Uniti e molti hanno cercato di imitarlo. Con “Ladri di bicilette si voleva far capire quanto
la guerra avesse tolto, ma quanto comunque si fosse felici, questo era il
messaggio. L’artista vero non realizza un progetto per soddisfare il pubblico.
Non lo realizza per avere un consenso, o un’identità. Lo fa perché ne ha
bisogno.
Nel 2022 sente il bisogno di dare finalmente spazio ai suoi
scritti, e inizia così la stesura della raccolta poetica “Otto Betulle”, titolo
che deriva dalla sua infanzia e dal numero di anni vissuti nel paese d'origine.
Infine, ha vinto il premio "Lorenzo il Magnifico" per il
cortometraggio "Otto Betulle" alla Biennale di Firenze 2023.
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