Intervista a Elvezia Allari - Le trasparenze sospese di un femminile eterno
Elvezia Allari è un’amica di lunga data. Ma nell’intervista che segue, ho voluto guardarla come si guardano gli artisti e le loro opere, con la domanda e lo stupore verso chi riesce a trasferire idee e sentimenti nella materia. Anzi, nel suo caso, nella molteplicità dei materiali che nel corso del tempo ha sperimentato. Se penso a lei, mi vengono in mente gli artisti del Rinascimento, che ho sempre immaginato come sperimentatori fuori dal tempo, devoti assoluti al loro lavoro, capaci di esplorare le più svariate tecniche e consapevoli che l’opera migliore – come scrive Elvezia - è sempre quella ancora da realizzare.
L’intera esperienza artistica di
Elvezia Allari è una tessitura continua, che prende le mosse da una riflessione
profonda e al contempo ironica sul corpo e sull’immaginario femminili, nel loro
dialogo costante con la vita, con la natura, con il passato e il presente.
Ecco qui di seguito la sua
intervista.
Un giorno hai detto che un artista
completo sperimenta tutti i materiali possibili. Mi sembra che tu abbia seguito
questa strada: dalla ceramica alla carta, dalle tessere musive al silicone, fino
al fil di ferro cotto. Che cosa spinge un’artista come te a scegliere un
materiale piuttosto che un altro?
La curiosità.
Di certo ciò che mi spinge è la curiosità infinita verso i materiali che cerco
o che trovo per caso. Mi piace moltissimo il contatto con la materia.
Sperimentare, osservare come ogni materiale reagisce, soprattutto agli
errori...
Uno dei primi materiali con cui
ti sei cimentata all’inizio è il silicone. Ne hai fatto dei bracciali – i tuoi
“accompagnatori”, come li hai definiti – e moltissimi altri monili dai titoli
ironici, come ad esempio i tuoi “budini” da passeggio. Poi hai usato il
silicone come fosse un filo da tessere e sono nati i primi vestiti appesi. Da
tutto questo, mi sembra, è iniziata una riflessione sul corpo femminile:
attraverso la costruzione di accessori e abiti completamente diversi
dall’immaginario femminile collettivo che impone una serie di standard
estetici. Com’è nato l’uso di questo materiale?
In realtà è nato da un errore. In quel periodo collaboravo con una compagnia teatrale del Veneto: dovevo creare una quinta di sei metri per uno spettacolo che si sarebbe svolto a Malta. La scena da ritrarre era un particolare di una veduta del Canaletto, con due damine affacciate ad un balcone. Non riuscivo a dipingere come volevo il bordo della finestra, così sono andata dal ferramenta, ho comprato una pistola per la colla a caldo e ho creato il bordo della finestra con vari spessori di questa colla. Mentre aspettavo che la quinta si asciugasse, sul pavimento di marmo ho iniziato a creare dei ghirigori con i fili di colla che colavano dalla pistola. Insomma una specie di dripping, alla Pollock. Da lì ho cominciato a realizzare i monili e poi varie collezioni di abiti in silicone.
Ho realizzato anche un burqa, dopo aver letto “L’harem e l’Occidente” di Fatima Mernissi, una scrittrice e sociologa marocchina. Nel suo libro mi aveva molto colpito l’alternarsi di libertà e costrizione per le donne: Mernissi racconta che le donne del suo Paese erano abituate a crearsi abiti, senza pensare alla taglia, e che durante un viaggio in Europa era rimasta scioccata nel vedere che in qualsiasi negozio di abbigliamento la taglia più grande era la 42. Tutto questo mi ha fatto pensare a quanto noi donne occidentali siamo condizionate dai diktat delle case di moda, dalle proibizioni sul corpo, sull’età. Proibito ingrassare, proibito invecchiare! Quindi ho creato un burqa di silicone – che è poi il burqa dell’Occidente - e ho ideato una performance intitolata “La Rêve du Corps”, ossia il sogno dei corpi. In effetti non si tratta affatto di un sogno, ma di una mera illusione di controllo sulla donna.
Dopo aver
sperimentato gli abiti in silicone, in un giorno di inquietudine sono andata da
un ferramenta a vedere che materiali potevo trovarvi. Ho comperato una matassa
di filo di ferro cotto e appena sono arrivata a casa, ho fissato un chiodo e
una gruccia ad una trave e ho iniziato di getto a creare il primo abito: “l’abito
di Penelope”. Il filo di ferro cotto è così duttile che sembra di maneggiare un
gomitolo di lana. Io paradossalmente ho sempre odiato lavorare a lana o
all’uncinetto! Il filo di ferro cotto invece, mentre lo lavoro e lo intreccio,
mi lascia sulle mani lo sporco della ruggine e ho sempre pensato che la ruggine
rappresenti la verità delle cose. Questo materiale mi parla in questo modo. Ne
“L’abito di Penelope”, ho lasciato il vestito incompiuto, con un gomitolo di
ferro che scende a terra, come fosse qualcosa da tramandare a altre donne. Il
messaggio di questo lavoro è che la donna possa essere indipendente e libera
nello scegliere il proprio destino.
Mi colpisce molto anche l’uso di
materiali deperibili come i fiori, le foglie, addirittura il pane: elementi
combinati a trame forti, tenaci, fatte di ferro. È come se nell’uso di elementi
naturali, che seguono il ciclo naturale di nascita e morte, vi fosse il rimando
anche all’evoluzione insita nel lavoro artistico. Cosa c’è dietro questa
estrema delicatezza dei materiali?
Nell’uso dei materiali deperibili, c’è la gloria dell'effimero. Un effimero che però nutre. I fiori e ancor più il pane sono sempre dei nutrimenti per l'anima. Io li vedo e li sento così. Il pane è composto da farina, acqua e lievito: il tutto lavorato sempre con le mani, attraverso gesti umili, tramandati da generazioni. È un nutrimento fisico universale.
Quando modelli il pane, senti il lievito madre che ti parla, è vivo… è una strana sensazione. Puoi essere tu stessa l'artefice del tuo nutrimento e puoi anche donarlo agli altri, come in una forma di comunione - non nel senso necessariamente religioso. Per quanto riguarda gli elementi naturali, io abito da anni immersa nella natura. Quando mi sono trasferita nella casa in cui vivo attualmente, vi ho trovato un giardino e un brolo completamente abbandonati. Così ho iniziato a sistemarli e soprattutto nel periodo del lockdown, in cui non potevamo uscire di casa, per me è stata una rivelazione. Ogni giorno andavo nel brolo a ascoltare i suoni, a comprendere che alberi ci fossero. Un melo dalle melette antiche, un susino, un ciliegio, un gelso, accostati alle mura, e dei filari di vite. Un vero hortus conclusus. Ho impiegato quasi due anni solo per ripulire e sistemare tutto, l’ho fatto da sola e in silenzio, e mi sono resa conto che ogni giorno facevo lo stesso percorso, come se si trattasse di un cammino iniziatico. Da lì ho cominciato a creare: con il filo di ferro cotto, ho realizzato un copricapo che ho intitolato “Hortus” e che - come ha scritto François Bruzzo – “raffigura l'ardua conquista di un giardino dello spirito che rifugge dai rumori del mondo, dalle sue maschere, dai suoi canoni stringenti della forma e della bellezza che gli altri scelgono per noi”.
È strano sentire come le piante ti parlino, come ti osservino e a volte provo un’enorme gratitudine per loro. La mia ricerca artistica oggi è prevalentemente legata al giardino, al suo silenzio, all’ascolto delle piante. Il mondo esterno chiede troppo, è troppo esigente per me. Forse sarà l’età, ma l’esterno mi interessa sempre meno.
I tuoi abiti rimandano a qualcosa di molto arcaico: la tessitura, la filatura. Ambiti per secoli precipuamente femminili. Si tratta di abiti senza corpi che li possano indossare, di presenze silenziose, appese e sospese, che ricordano che il mondo femminile esiste sempre - al di là del visibile - e sostanzia il tempo e lo spazio. Quindi dentro i tuoi abiti si potrebbe dire c’è un pezzo di storia che si è tramandato a lungo…
Credo che noi
donne abbiamo una serie di comportamenti inscritti nel DNA e a noi
inconsapevoli, che arrivano da altre donne, dalle madri, dalle sorelle. Gesti
che ripetiamo all'infinito...
Un altro
materiale che stai sperimentando, soprattutto ultimamente, è la ceramica. Un
materiale con cui hai lavorato soprattutto agli inizi del tuo percorso
artistico. E anche qui ritorna il tema del nutrimento – nei tuoi piatti
“biancolatte” – e della natura – nei tuoi “Fiori per Eterni giardini”. È come
se tu volessi procedere inversamente, e creare piccoli elementi naturali che
restano, che non deperiscono. Come i servizi di piatti di una volta, che erano
sacri, che dovevano durare a lungo perché erano un patrimonio familiare….
Vedi com’è strana la vita? Io ho compiuto studi da ceramista, e all’epoca volevo solo imparare ad usare la ceramica. Lo scorso aprile, sono stata chiamata a creare dei prototipi in ceramica per una Fondazione. E mi si è riaperto un mondo che avevo soltanto messo da parte. La ceramica ti fa ritornare ad una gestualità primordiale: acqua, mani, argilla, fuoco, calore, stupore… Così ho pensato di creare i "Fiori per Eterni giardini” in ceramica smaltata: sono un omaggio alla natura, l’espressione di un desiderio che questi fiori durino per sempre.
Fiori per "Eterni giardini"
Avevo letto una frase di Derek Jarman: “Il mio giardino s’iscrive in un altro tempo, senza passato né futuro, senza inizio né fine”. Ecco, i miei sono fiori di un giardino mentale, dove non esiste né inizio né fine... Attraverso di essi, vorrei bloccare il momento, renderlo eterno e visibile a tutti, perché nel mondo c’è bisogno di grazia, di clemenza, di ascolto, di bellezza, di aiuto…
Sei un’artista che ha prodotto moltissimo e sei già
storicizzata, tanto che su di te vengono fatte ricerche universitarie. Cosa ha
contribuito negli anni a questa importante crescita umana e artistica e come la
vivi?
Credo che un artista abbia delle responsabilità
nell’operare: si muove e capta tutto ciò che lo circonda nel periodo storico in
cui vive. L’attualità in costante movimento. Sono contenta se attraverso il mio
lavoro posso dare un contributo alle nuove generazioni. È vero, ho prodotto tanto, di continuo, soprattutto
negli ultimi anni. Ho sentito l’esigenza di depositare memoria, il più
possibile, visti i tempi in cui viviamo. Ho sentito l’urgenza di fare arte
senza tregua. L’arte contribuisce a mantenermi solida, centrata. È come se
sentissi la presenza di un daimon, dentro di me, che mi chiama sempre, senza
orari precisi. E allora il tempo sparisce. Poi mi accade di guardare cosa ho
fatto e di non sapere, in realtà, quale mano mi abbia guidato a creare…
Nata a Schio, in provincia di Vicenza, Elvezia Allari frequenta l’Istituto d’arte, specializzandosi in ceramica. Ottiene inoltre la qualifica di Operatrice di Restauro Architettonico di pietra e affresco. Dal 1994 partecipa ad importanti collettive e allestisce numerose personali. Nel 2006 è stata selezionata alla Triennal of textile di Bratislava. Vive e lavora in Italia, dove dà origine ad allestimenti, interventi pittorici, performance, opere di textile, design artificiali. I suoi materiali d’elezione sono il silicone, i polimeri a caldo, il filo di ferro cotto, la carta, la ceramica: tutti impiegati in modo inconsueto.
Ama profondamente il silenzio e la cura del suo giardino.